di PATRIZIO PAVESI - I dati parlano chiaro: la vita per un giovane medico in Italia non è facile. Pochi posti di specializzazione, stipendi bassi, ridotte possibilità di carriera: chi può sceglie l'estero e si aggrava la mancanza di specialisti e medici di base. Ne abbiamo parlato con il dott. Gianfranco Lima, presidente dell'Ordine di Cremona

Prima le europee, poi le comunali: le urne sono chiuse, i verdetti sono stati emessi, festeggiamenti e recriminazioni già consumati. I temi da campagna elettorale sono tornati nel cassetto, almeno fino alla prossima tornata. In redazione, dove non ci occupiamo di politica in modo diretto, ci siamo interessati a uno dei terreni di confronto tra i partiti, quello della sanità. Argomento molto complesso e, se vogliamo, poco “giovane”. Ma se è vero che i giovani in genere la maneggiano poco, è anche vero che prima o poi con la sanità dovranno avere a che fare ed è quindi nel loro interesse cominciare a capirci qualcosa. Soprattutto se qualcuno di loro dovesse intraprendere la carriera medica. Ed eccoci qua, a riprendere l’argomento ora che la politica ha girato i riflettori altrove.

Il primo spunto riguarda la riforma dell’accesso alle facoltà di medicina che sarà in vigore dal 2025. In sintesi estrema: resta il numero chiuso, basta test di ingresso, ma al primo anno potranno iscriversi…tutti. La scrematura avverrà al termine del primo semestre e risparmierà coloro che si sono meglio comportati da matricole. Il numero di studenti che potranno proseguire il percorso sarà stabilito sul fabbisogno nazionale di camici bianchi e sui posti effettivamente disponibili nelle scuole di specializzazione. Tra le criticità evidenziate, il fatto che comunque mancheranno alcune specialità.

Abbiamo voluto parlarne con il dott. Gianfranco Lima, per 40 anni medico di medicina nucleare all’Ospedale Maggiore e ora Presidente dell’Ordine dei Medici di Cremona.

La facoltà di medicina è ancora attrattiva? Quelli che mancano sono gli specialisti e il Covid lo ha mostrato chiaramente anche da noi: non avevamo pneumologi, terapisti avanzati, cardiologi, infettivologi…abbiamo mandato sul campo tutti. Il giovane non è attratto da certe specializzazioni perché economicamente ce ne sono altre che danno un ritorno maggiore. Quindi accade che alcune specialità abbiano parecchi iscritti, ma altre (come Pronto Soccorso) non abbiano nessuno. Bisogna perciò ritrovare dei meccanismi di attrazione anche per quelle specializzazioni che interessano di più la sanità pubblica”.

Intervistato dal Corriere della Sera, il prof. Gian Vincenzo Zuccotti (direttore della Pediatria dell’ospedale Buzzi e prorettore della Statale di Milano), critica tra le altre cose la stima che il ministro Bernini fa dei medici che saranno disponibili dopo questa riforma: 30.000. Troppi, anche secondo il dott. Lima. 

L’esigenza di personale ce l’abbiamo oggi. Se apriamo l’università a tutti, avremo medici pronti tra 10 anni, ma noi già sappiamo che allora il numero di medici sarà sufficiente. Rischiamo si ripeta uno schema già visto: tanti medici pochi posti nel passato, tanti posti pochi medici adesso. Questo vuol dire non avere programmazione: scuola e salute devono essere programmati per decenni”. 

Ma come rispondere alle libere e legittime scelte dei laureati in medicina che preferiscono alcune specializzazioni e ne snobbano altre? Il problema non è tanto il numero di medici in assoluto, quanto il numero degli specialisti “mal distribuiti”.

Fino a pochi anni fa le richieste erano tante, ma le scuole di specializzazione avevano soltanto pochi posti all’anno e molti ne rimanevano esclusi. Oggi invece siamo di fronte a scuole di specializzazione che hanno posti occupati solo in parte, perché lo studente aspetta fino all’ultimo di capire se conviene fare l’ortopedico o il cardiologo. Bisogna invece fare in modo che diventare specialista in pediatria sia attrattivo come diventarlo in ortopedia. Oggi il giovane medico dovrebbe capire che la sua professione si svolge nel mondo, nella società: lavorare per un ambiente migliore, informare, istruire…sono tutti modi per fare medicina. Oggi ormai si parla di salute globale, nessuno più parla di sola salute fisica”.

L’infografica del Corriere della Sera sull’esodo dei medici italiani verso l’estero

A inizio maggio, un secondo articolo del Corriere illustrava numeri preoccupanti sull’esodo di medici dall’Italia: 20.000 quelli stimati in uscita nel 2024, il 90% dei quali sotto i 40 anni. Le ragioni? Carriera e stipendi, con quelli italiani tra i più bassi in Europa: 82.184 euro contro una media di 141.409 e paesi come Danimarca, Olanda, Germania, Irlanda e Lussemburgo vicini ai 200mila.

Il primo motivo di questa situazione è quello già citato dell’attrattività: non solo all’estero hai una buona retribuzione, ma anche una buona carriera. Oggi si entra a 31 anni in ospedale, ma la carriera avanza molto molto lentamente: di tutti i medici, forse l’8-10% diventa primario. E allora un ragazzo, che oggi può muoversi come vuole, va dove incomincia a lavorare prima, lavora in equipe, fa ricerca e assistenza,…

Se possibile le cose vanno ancora peggio sul fronte dei medici di medicina generale: nei prossimi 6 anni, spiega ancora il Corriere, ne andranno in pensione 12.600 su 37.860, ossia uno su tre, ma all’orizzonte non si vede possibilità di ricambio: i giovani non vogliono diventare medico di base.

Sì, anche a Cremona siamo in difficoltà, perché l’età dei nostri medici di base è alta. Anche qui è un discorso di attrattività. Se fai il corso di specializzazione in cardiologia, ad esempio, sei pagato con una borsa di studio di un certo valore (circa 26mila euro/anno netti, ndr), mentre il medico di medicina generale si trova un rimborso di meno di mille euro. Ma è anche una questione di mansioni e importanza. Tra medicina del territorio e medicina ospedaliera dovrebbe esserci un discorso di collaborazione continua. Il medico di medicina generale non dovrebbe sentirsi quello che sta dietro la poltrona e ti prescrive l’aspirina, ma dovrebbe avere gli strumenti per iniziare il percorso di cura, che non faccia rimbalzare il paziente da uno specialista all’altro alla ricerca di una diagnosi che con gli strumenti giusti può fare lo stesso medico di famiglia”. 

Il Covid, le polemiche sulle cure e sui vaccini, i tanti morti: come esce la figura professionale del medico, la sua autorevolezza, da questo duro periodo?

Il medico, ma direi che vale per ogni professione, dovrebbe vivere più quotidianamente e più fortemente la sua deontologia professionale, ma non credo stia perdendo autorevolezza. Il problema è la relazione che abbiamo con il paziente: prima era errata ed era quella del medico paternalista, che decideva se e come dovevi essere curato, senza che il paziente avesse voce in capitolo. Ora invece c’è una corresponsabilità, un’autodeterminazione del paziente. Il consenso alle terapie deve diventare frutto di un dialogo con lui e con i suoi familiari, non solo una questione di firma e di scarico di responsabilità. Perché parliamo di persone fragili, dietro le quali c’è la fragilità della famiglia propria, dei propri genitori o dei figli. Questo vale per i malati tumorali, ma anche per le grandi malattie croniche come Alzheimer e Parkinson, dove la qualità della vita è essenziale. Lo dice anche il nostro codice: il tempo di comunicazione è tempo di terapia. Empatia, attenzione, sensibilità: sono cose a cui l’università ti dovrebbe preparare, non considerarle un aspetto accessorio”.